Il cappotto di cammello


Buongiorno e buona domenica. Vi lascio in compagnia di un mio racconto. Spero vi piaccia.

 
Sono stati anni difficili, quelli! L’Italia era al centro di problematiche internazionali, tanto da mettere in allerta le potenze alleate e in qualche misura la Nato.  Fu presa in considerazione anche l’ipotesi di un colpo di Stato in quanto pareva che il partito Comunista, che aveva sfiorato il successo alle elezioni politiche dell’anno precedente, potesse prendere il potere. Erano i cosiddetti anni di piombo, degli attentati e di vicende nebulose. Come quella della rocambolesca fuga dall’ospedale militare del Celio del criminale nazista Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.  Accadde proprio nell’estate dell’anno in questione. Aiutato dalla moglie, che in visita alla stanza del marito si sarebbe presentata con una grossa valigia dove, dopo aver fatto addormentare i due carabinieri di guardia, v’infilò il coniuge (che per via della malattia contratta pesava meno di cinquanta chili), riuscendo, in tal modo, a calarlo dalla finestra utilizzando un verricello che aveva tenuto nascosto. Recuperato infine il grosso bagaglio, lo trascinò e lo caricò nella sua auto.   
Erano gli anni in cui l’impero sovietico stava incanalandosi verso un destino amaro per opera di un papa polacco, che da lì a breve, sarebbe asceso al soglio pontificio, e l’avrebbe condotto ineluttabilmente alla sua dissoluzione.      
Durante un venerdì sera del dicembre del 1977, nel mentre un vento gelido imperversava su Roma, passeggiavo per il centro con un collega di lavoro. Lui era il contabile della casa editrice in cui lavoravo come correttore di bozze. Il giorno prima, il mio amico Bart, mi aveva fatto dono di un bel cappotto di cammello, dato che ne aveva acquistato un altro perché quello datomi gli andava stretto. Bart, che sta per Bartolomeo, era italo-americano e nell'aspetto ricordava molto il magnate greco Aristotele Onassis. Era un uomo ricco e generoso e veniva in Italia tre, quattro volte l’anno per starsene almeno un mese per volta con la sua amante, la madre divorziata di una mia amica.  
Il cappotto, di un inconfondibile color beige, era in doppiopetto, molto elegante, con il risvolto del collo largo, tasche a pattina, cintura con bottoni e con martingala e spacco singolo sul retro. In verità, sebbene fosse un capo prestigioso e mi calzasse a pennello, mi resi conto che a indossarlo mi creava un certo disagio. Mi dava l’aria d’un tipo troppo sciccoso e la cosa non mi garbava affatto. 
Con il collega avevamo raggiunto piazza Venezia, quando la mia attenzione fu rivolta ad un capannello di curiosi formatosi nel giardino prospiciente il bianco complesso del Vittoriano, accanto la zona archeologica. Piantata in terra potei vedere una tenda da campeggio canadese, con accanto un paletto con affisso un cartello che avvisava di uno sciopero della fame in corso. Davanti la tenda, accovacciati in terra su una coperta logora, c’erano due coniugi attorniati da una caterva di cagnolini. Da quanto riuscii a capire da chi li stava osservando, seppi che erano esuli russi e stavano lì da giorni in segno di protesta, in attesa di essere accolti nel nostro Paese.     
L’esilio è una condizione della massima severità che inficia completamente la vita di una persona. Stetti ad osservarli provando per loro un senso di pena, cercando di capacitarmi come potesse essere dura la vita per chi è costretto a lasciare il proprio luogo natio. Una frattura insanabile che conduce a un vivere ramingo, senza speranza, lontano dai propri affetti familiari, pur se in alcuni casi, la vita da esule, può riservare risvolti trionfanti derivati dagli sforzi diretti a superare i dispiaceri dalla perdita di qualcosa che si lascia per sempre alle spalle. Così dovette accadere al Sommo poeta, il quale affrontando l’esilio oltre che la “dolorosa povertade”, fu costretto a vivere grazie alla generosità di vari principi, nonostante fosse stato accolto da loro con benevolenza e ammirazione. Così pure toccò a Ugo Foscolo, poeta e scrittore, nato a Zante e trasferitosi con la famiglia nella Repubblica di Venezia qualche anno dopo la morte del padre, dove però non vi restò molto in quanto, all’età di circa venti anni, fu indotto ad allontanarsi dalla città lagunare perché sospettato di idee libertarie e giacobine. D’altro canto, nello stesso periodo, con il trattato di Campoformio, Napoleone cedette Venezia all’Austria e quantunque fosse animato dagli ideali portati avanti dalla Rivoluzione, che riguardavano la libertà, la fratellanza e l’uguaglianza il giovane Foscolo rimase deluso per come si erano rivelati, preferendo così starsene lontano dalla violenza e dall’infamia delle persecuzioni, restando per sempre un pellegrino in cerca di una patria che li rispecchiasse appieno.      
Osservando quegli esuli sul prato, alle prese con un gelo insopportabile, non potei nascondere il mio rammarico. La donna, avanti con gli anni e piuttosto malandata, indossava una logora vestaglia di lana lunga sino ai polpacci; l’uomo, che inforcava degli occhialetti con stanghette di metallo, doveva essere poco più giovane della consorte. Teneva indosso un pullover consumato, un po’ largo e sfilacciato intorno al giromanica e stava accovacciato e silente, col volto all’insù, come rapito dal cielo scuro, accarezzando un paio di cagnolini che cercavano riparo dal freddo intrufolandosi tra le sue braccia.  Ed io me ne stavo lì, ferito nell’animo, avvolto nel mio bel cappotto di cammello che mi teneva al caldo.    
«Ma che cavolo ci sono venuti a fare questi poveracci in Italia» sbottò d’un tratto il mio collega. Gli lanciai una occhiata riprovevole, tuttavia quel suo dire mi fece salire una stizza incontenibile. 
«Perché tu pensi che siano venuti qui di loro spontanea volontà?» risposi in tono tagliente, riprendendo a camminare. 
«Beh, no! Potevano almeno scegliersi un luogo più al caldo» disse sogghignando. «Starsene qui derelitti, al centro di Roma, a sbatterci in faccia i loro problemi, non è certo bello a vedersi», concluse impietoso, passandosi la mano sui capelli imbrillantinati. Io non avevo avuto mai grande stima di quel collega, né avevo mai avvertito il bisogno di avere con lui un legame stretto e confidenziale. In effetti, avendo avuto modo di appurare la sua superficialità e insensibilità e non avendo alcuna intenzione di sorbirmi altre sue stupide esternazioni, né tantomeno stare a spiegargli il dramma che stavano vivendo quei due, non aggiunsi nulla alla sua battuta idiota. Senonché, avendomi infastidito con quell’infelice uscita, per non dare adito ad altre discussioni insensate, smisi di dialogare con lui; egli, notando il mio atteggiamento scostante e avendo percepito le mie intenzioni, non trovò di meglio che inventarsi una scusa per congedarsi da me seduta stante.    
«Beh, ora ti saluto e visto che sono qui ne approfitto e faccio un salto da una mia zia che abita proprio lì dietro, in via dei Fornari» disse, indicando un palazzo in fondo alla strada. «Non la vedo da un sacco di tempo…  sarà l’occasione per farle gli auguri di Natale. Beh, ci vediamo lunedì in ufficio!», concluse, allontanandosi a passo svelto.   
Io la conoscevo bene quella via, poiché c’era una rivendita di libri usati in cui mi servivo. Mi tornò in mente il proprietario, un signore anziano dallo sguardo severo e con dei bei baffi a manubrio che gli davano un’aria aristocratica, con cui m’intrattenevo volentieri. Era da tutti conosciuto come il sor Otello ed era una fonte inesauribile d’informazioni che conosceva a menadito gli angoli più segreti della vecchia Roma. Mi raccontò che Via dei Fornari portava quel nome poiché i fornai decisero di realizzare la sede della loro corporazione nel luogo dove Traiano fece costruire il Foro Pistorio, ovvero il mercato del pane e dove nel 1507 fu eretta, appunto, l’Università dei fornai. Purtroppo le trasformazioni urbanistiche che si ebbero dopo l’Unità d’Italia, modificarono in buona parte il rione in cui, tra l’altro, era ubicata la modesta casa che ospitò fino alla morte Michelangelo Buonarroti. Due lapidi apposte sul fianco del Palazzo delle Assicurazioni in piazza Venezia, ricordano la casa del grande artista.  
Rimasto, alfine, in buona compagnia con me medesimo, mi avviai verso via Nazionale, ma non appena giunsi all’altezza dell’incrocio che conduce al Traforo, ripensai con tristezza a quella coppia di esuli sotto il freddo glaciale, decidendo di tornare indietro. 
Il buio s’era fatto più fitto, pur se debolmente rischiarato dai lampioni. Il crocchio di persone non c’era più, solo qualche passante distratto passava e andava oltre.   
Avvicinatomi ai bordi del giardino cercai un approccio con l’uomo che vidi intirizzito dal freddo in piedi accanto alla tenda. Aveva lo sguardo assente rivolto verso il gigantesco monumento in marmo bianco dell’Altare della Patria. Ai piedi portava dei vecchi sandali con delle calze rattoppate. Attorno a lui gironzolavano smaniosi e spaesati i cagnolini, che entravano e uscivano dalla tenda come per accertarsi che il padrone fosse sempre con loro.   
«Ehi mister, posso scambiare due parole con lei?» dissi alzando il tono della voce.   
Lo vidi trasalire, come se si fosse appena destato da un sogno migliore di quanto gli offrisse l’amara realtà. Si strofinava le mani per riscaldarsi. Accennò un sorriso, mentre i cagnolini abbaiavano in coro, correndo verso di me, senza oltrepassare il bordo in ferro battuto del giardino. Restò a guardarmi confuso, e senza avvicinarsi mi si rivolse con la classica cadenza russa di chi tenta di parlare in italiano. Provai a chiedergli se avesse bisogno di qualcosa ma non so se riuscì a sentire quanto gli stavo dicendo. Difatti, in quel preciso istante, si udì il suono incessante e fragoroso di una sirena che lacerò l’aria. Feci appena in tempo a vederlo scappare di corsa nella tenda seguito dai cagnolini che vi s’infilarono dentro tempestivamente. 
L’ambulanza, proveniente da via dei Fori Imperiali, sfrecciò davanti a me dirigendosi a rotta di collo per via del Corso, lasciandosi dietro l'eco del suo urlo angosciante e l’inquietante luce blu intermittente dei lampeggianti. 
Al che, senza pensarci un attimo e convinto di quello che stavo facendo, avendoci pensato abbondantemente, mi avvicinai alla tenda, illuminata all’interno da una fioca luce, da cui vidi fuoriuscire un paio di testoline dei cagnolini. 
 «Mi scusi Mister», dissi chinandomi verso l'apertura. «Se non vi dispiace vi lascio qualcosa che vi consentirà di riscaldarvi meglio», soggiunsi, sfilandomi il cappotto di cammello, appendendolo al paletto. Dopo aver dato loro la buonanotte, me ne andai, raggiungendo a passo svelto l'albergo in cui alloggiavo in via dei Chiavari.
L’indomani, nel primo pomeriggio, volli andare a vedere come se la passavano quelle persone che avevo lasciato sotto un freddo bestiale. Per fortuna c’era un bel sole, e quando vi arrivai vidi diversi bambini, accompagnati dai loro genitori, intenti ad osservare lo spettacolo divertente che offrivano i cagnolini che saltellavano davanti la tenda sul prato. C'erano pure i due coniugi, in piedi accanto alla tenda, che seguivano con il sorriso sulle labbra l’esibizione dei loro cagnolini. Ma con grande sorpresa constatai che quelle festose bestioline si rincorrevano in tondo… sul bel cappotto di cammello del mio amico Bart, steso in terra con sopra una scatola di cartone con dentro delle monete offerte loro dagli spettatori. Abbozzai un vago sorriso, restando alle spalle degli astanti, per poi allontanarmi. Non riuscivo a capire se fossi deluso o altro, ma poi mi accorsi che in fondo ero contento lo stesso, soprattutto se la notte il cappotto di cammello fosse servito a riscaldare quelle gioiose bestiole. 

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